Immaginate un sentiero di montagna in alta quota, 2500-3000 mt di altitudine. Tutt’intorno solo rocce. Sotto i piedi di chi si avventura fin lì solo pietre.
Osserviamo quello che c’è intorno: da un lato la montagna, una parete ripida di roccia, dall’altro il vuoto. Guardiamo con maggiore attenzione il sentiero: è stretto, accoglie una persona, a stento due. Scrutiamo ora lo strapiombo: la montagna, al di là di quello stretto spazio orizzontale che costituisce il sentiero, riprende il suo andamento ripido, giù verso il basso. Qualche spuntone di roccia sporge qua e là, poi pietre in bilico e sassi ovunque. Il fondo, lontanissimo, lascia vedere ancora e solo pietre. Intorno a noi solo il bianco accecante delle rocce nude.
Ora immaginiamo che sul quel sentiero, in quel punto che abbiamo osservato, giungano uno alla volta tre personaggi.
Il primo è un rocciatore esperto, equipaggiato di tutto punto ed in modo adeguato, ha come obiettivo di raggiungere, proseguendo lungo il sentiero e affrontando poi una parete attrezzata, un rifugio in alta quota. Si ferma lì dove noi poco fa abbiamo fatto la nostra osservazione e, come noi, osserva la situazione. Osserva e valuta. Osserva la strettezza del sentiero, la profondità dello strapiombo e la parete disseminata di rocce sporgenti. In base a tali osservazioni valuta che mettere un piede troppo in là verso il vuoto vorrebbe dire morte sicura. In conseguenza a tale valutazione giudica rischioso camminare anche soltanto al centro del sentiero e fa la scelta di mettere un piede avanti all’altro tenendosi a filo della montagna, lo sguardo in basso a scrutare il suolo. Lo vediamo proseguire con cautela ma con la sicurezza datagli dalla sua esperienza.
Giunge ora un secondo personaggio. Si tratta di un escursionista arrivato in quel punto per errore. Quando, più a valle, il sentiero si biforcava aveva scelto di seguire quello più pianeggiante pensando che fosse la via più semplice. Aveva proseguito il cammino a testa china preso dai suoi pensieri. Quando si rende conto di essere su quel sottile nastro di roccia che circonda la montagna con sotto il vuoto, si ferma di botto. Osserva. Naturalmente ciò che vede è quello che abbiamo già descritto e, in un attimo, valuta che basterebbe un niente per precipitare nel vuoto e trovare morte sicura. Non ha mai vissuto nessuna esperienza di quel genere e il terrore lo assale in quanto giudica che il semplice fatto di stare su quel sentiero è una situazione troppo pericolosa per lui. Arretra per avvicinarsi il più possibile alla montagna, tira fuori il cellulare e chiama il soccorso alpino.
Ed eccoci al nostro ultimo personaggio. Arriva con passo lento, la testa china, lo sguardo basso. Si ferma nel solito punto ed osserva. Si sporge un po’ a scrutare il fondo, i piedi pericolosamente oltre la metà del sentiero a pochi centimetri dal baratro. Valuta che un passo in avanti vorrebbe dire morte certa e giudica il luogo giusto per raggiungere il suo obiettivo. Alza un piede, sbilancia il busto in avanti e si lascia cadere nel vuoto.
Ecco come tre persone diverse, nel medesimo luogo e partendo dalle stesse osservazioni, si trovano a fare le medesime valutazioni per arrivare ad esprimere un giudizio che, invece, è totalmente soggettivo in quanto tiene conto del loro personale obiettivo legato al loro vissuto: proseguire il cammino verso la meta prefissata, bloccarsi per mettere in salvo la propria vita, gettarsi nel vuoto per trovare la morte desiderata.
In questi termini l’atto del giudicare ha una sua fondamentale funzione dandoci la possibilità di scegliere ciò che è giusto per noi.
Ho scelto di fare questo esempio ma ne avrei potuti fare numerosi altri perché il giudizio può assumere innumerevoli aspetti. Quello di cui vorrei però qui parlare è il giudizio formulato, ed eventualmente espresso, in un ambito ben specifico e cioè nelle relazioni con gli altri. Mi riferisco quindi al giudizio che formuliamo sugli altri e non più su aspetti che riguardano noi stessi e le nostre esperienze, come nei casi precedenti.
Premetto che per “formulare” un giudizio intendo ciò che il termine significa da un punto di vista letterale cioè “dare forma” al giudizio, lasciare quindi che esso sorga come pensiero nella nostra mente. Già questo, prima ancora che si passi ad esprimerlo verbalmente, ci pone in una posizione precisa. Nel formulare un giudizio, infatti, ci poniamo ad un livello superiore rispetto all’ oggetto giudicato, ci arroghiamo il diritto di sapere ciò che è giusto o sbagliato per l’altro. Abbiamo però appena visto come, nella medesima situazione, persone diverse possano, in base al proprio vissuto ed al proprio obiettivo, arrivare a fare scelte completamente diverse una dall’altra. Potremo sicuramente condividere con l’altro l’osservazione obiettiva della situazione, forse fare alcune valutazioni simili alle sue ma, da quel punto, tutto quello che segue è assolutamente soggettivo. Spetta solo a lui, con il proprio vissuto ed i propri obiettivi, esprimere un giudizio che lo porterà a compiere una scelta. Ed anche nel caso in cui avesse già compiuto una scelta e noi giudicassimo questa, faremmo un’operazione scorretta perché la sua scelta va rispettata in quanto rispecchia il suo modo di vedere e vivere l’esperienza.
E’ facile quindi capire come, nella relazione, esprimere giudizi su aspetti che riguardano l’altro possa creare un ostacolo. Tranne i casi in cui rivestiamo un ruolo in cui il giudizio fa parte della nostra funzione, ad esempio quello del docente che ha il compito di giudicare la preparazione di un allievo, nella relazione con l’altro dovremmo evitare di giudicare. Una sana relazione è un legame tra due persone, familiare, amicale, amoroso o di altra natura, che permette uno scambio ed una condivisione tra i due. Si scambia affetto, conoscenza, aiuto, si condivide tempo, interessi, passioni. E’ chiaro che tutto ciò può avvenire se i due si trovano sullo stesso piano, si sentono liberi di esprimere se stessi perché sanno di poter essere accolti dall’altro per quello che sono e, nel contempo, si pongono nella posizione giusta per poter empaticamente accogliere l’altro. Il giudizio impedisce che questo avvenga.
Nella realtà, invece, è assai frequente porsi con un atteggiamento giudicante. Quante volte dopo aver osservato e valutato in modo obiettivo un’aspetto o un comportamento di qualcuno riusciamo a fermarci considerando che lui è altro da noi e che le scelte che deve compiere, o che ha compiuto, non possono che essere le sue? Quanto spesso, invece, formuliamo giudizi ponendoci in qualche modo nella posizione di “colui che sa quel che è giusto”? A volte ciò succede in modo assolutamente automatico, formuliamo giudizi senza neanche rendercene conto.
La modalità giudicante crea innanzi tutto disagio nell’altra persona e nel contempo impedisce a noi, che giudicando limitiamo all’altro la libertà di esprimere se stesso, di conoscere veramente chi abbiamo di fronte, di capire che cosa lo muove in una o nell’altra direzione, di scoprirne le fragilità ed i punti di forza. Dare la possibilità all’altro di esprimere le proprie fragilità ed i propri punti di forza corrisponde ad aprire quei canali attraverso i quali può fluire l’energia, il nutrimento che in una relazione passa dall’uno all’altro. Con il giudizio non riusciamo a cogliere l’altro nella sua interezza, è come se lo frammentassimo in più parti. Giudichiamo un comportamento, un atteggiamento, una scelta e via dicendo. L’immagine dell’altro si scompone in tanti pezzi e ne perdiamo l’interezza.
Tenere costantemente a mente che gli altri sono altro da noi, che il loro vissuto non è il nostro e quindi il loro modo di vedere la vita e di vivere le situazioni non coincide con il nostro, è condizione indispensabile per far sì che le nostre relazioni, i nostri legami, siano saldi, durino nel tempo e ci diano gioia e nutrimento.
Il lavoro di Counseling può aiutarci a divenire consapevoli di tutto ciò. Avremo la possibilità di imparare ad osservare il nostro approccio all’altro scoprendo magari una nostra tendenza ad esprimere giudizi. In questo caso, supportati e accompagnati dal Counselor, potremo intraprendere la strada del cambiamento. D’altra parte, nell’esplorazione delle nostre dinamiche relazionali, si potrebbe invece evidenziare una nostra difficoltà rispetto a comportamenti giudicanti nei nostri confronti nel qual caso, attraverso il percorso di Counseling, potremo trovare e mettere in atto strategie comportamentali che possano farci vivere meglio la relazione.
Vorrei concludere ricordando che la relazione del Counselor con il cliente è essa stessa necessariamente priva di giudizio. E’ condizione indispensabile un atteggiamento non giudicante da parte del Counselor per poter accogliere empaticamente il cliente, mettersi “nei suoi panni”, riuscire a capire il suo punto di vista per poterlo accompagnare a trovare la sua soluzione, l’unica giusta per lui. Anche in questo caso il giudizio sarebbe veleno per la relazione, rendendo inefficace l’azione del Counselor. (pt)